Quello che a lezione di storia non ci hanno insegnato: il razzismo nello sport contemporaneo

In questo articolo parliamo di sport e del razzismo comportamentale, ideologico, pregiudiziale e istituzionale che lo caratterizza e che ha origini coloniali: ma da dove ha origine il razzismo sportivo?

Il razzismo nel mondo sportivo non è sempre stato al centro dell’attenzione, né del pubblico, né dei media né dei fan.

Il mondo occidentale ha iniziato ad interessarsi alla non-inclusività del mondo sportivo solo di recente quando nel 1969 l’emerito professore dell’Università californiana di Berkley Harry Edwards pubblicò il libro “The revolt of the Black Athlete”. 

Nel libro, infatti il regista della ribellione degli atleti afroamericani alle Olimpiadi del Messico del 1968, spiega come la competizione sportiva alimenti il razzismo in un mondo in cui tutti *l* atlet* vengono giudicat* non soltanto sulla base dei loro talenti e meriti sportivi, bensì anche sul colore della loro pelle.


Questa ricerca ha ispirato, in Europa, studi analoghi e progetti che hanno come obiettivo quello di diminuire la diffusione di atteggiamenti razzisti e poco inclusivi nel mondo sportivo. Riguardo a questo, Patrick Clastres, specialista internazionalmente riconosciuto di sport e olimpismo formatosi a Tolosa e Parigi, dice: “Mentre le espressioni razziste sono sempre meno tollerate nella sfera pubblica (lavoro, scuola ecc.), lo sport è uno degli ultimi bastioni in cui il razzismo può esprimersi liberamente e, troppo spesso, senza adeguati provvedimenti. 

Perché questo? 

Perché il mondo dello sport si presenta come una società parallela ideale, neutra e ugualitaria con regole e leggi proprie.”

In Italia, invece, il razzismo sportivo ha origini ben radicate nel colonialismo e nel periodo fascista. I più autorevoli studiosi del colonialismo italiano concordano, infatti, nell’attribuire una rilevanza decisiva all’esperienza coloniale tanto nella costruzione di un immaginario razzista quanto nella definizione delle politiche sportive razziste del regime. 

Nell’Africa Orientale Italiana, infatti, il regime fascista creò un “Ufficio indigeno per lo sport” e le attività sportive che coinvolgevano atleti italiani furono interdette agli atleti nativi. Il disprezzo per le razze considerate inferiori iniziò a manifestarsi anche sulla stampa sportiva italiana.

Era il 19 gennaio 1938 quando su “Il Littoriale” comparve un editoriale di Nino Cantalamessa che si schierava contro la presenza di giocatori “di colore” nella nazionale francese. La Francia veniva accusata di introdurre “promiscue commistioni che causavano l’indebolimento e la contaminazione della razza bianca e la “superiore” civiltà occidentale”.

E mentre si stanno giocando i Campionati Mondiali di Calcio, questa affermazione risulta particolarmente vera. Questo genere di occasioni, specialmente nel calcio e durante i Giochi olimpici, portano spesso a una nazionalizzazione dell’immagine dello sport. Telecronisti, altri sportivi, atleti e fans di tutto il mondo si concentrano sugli atleti del proprio Paese. E lo sport come veicolo di pace diventa quasi un mito, dato che questa riesumazione del nazionalismo sportivo è tutt’altro che innocua ed è un terreno fertile per il razzismo.

Oggi la situazione è (apparentemente) diversa: l’articolo 21, nell’ambito del Capitolo sull’uguaglianza della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, vieta qualsiasi forma di discriminazione basata, fra l’altro,sulla razza, il colore della pelle, l’origine etnica o sociale e l’appartenenza ad una minoranza nazionale. 

Eppure, esistono numerosi esempi recenti che ci dicono quanto questo articolo venga costantemente disatteso, e non solamente dalle tifoserie calcistiche. La stereotipizzazione e i commenti di chi si occupa di sport in televisione o su altri canali continua ad essere sempre presente. Troviamo esempi di questo tipo nei Mondiali, nei campionati di calcio, nelle Olimpiadi. Ti ricordi ad esempio, di quando nel 2020 la Federazione Internazionale del Nuoto ha deciso che le cuffie progettate per capelli neri naturali — utilizzate da atlete come Alice Dearing, la prima nuotatrice nera a rappresentare il Regno Unito alle Olimpiadi — non potevano essere ammesse alle Olimpiadi perché “non si adattano alla forma naturale della testa” e “per quanto ne sa gli atleti che gareggiano negli eventi internazionali non hanno mai usato né richiedono cuffie di tali dimensioni.”?

Da Jesse Owens a Tiger Woods, da Balotelli a Cathy Freeman passando per Surya Bonaly e Serena Williams. Sono numerosissimi anche gli esempi di campion* che hanno dovuto combattere contro il razzismo latente nel mondo dello sport per tutta la loro carriera. E non accennano ad interrompersi le notizie sensazionalistiche che riportano “Prim* atleta ner* a fare questa o quell’altra cosa”. 

Il razzismo di cui si parla, nel mondo sportivo, è comportamentale, ideologico, pregiudiziale e istituzionale.

È comportamentale perché è visibile in campo e sulle tribune. 

È ideologico e lo si ritrova negli slogan dei più radicalizzati degli hooligan. 

È pregiudiziale e si esprime per esempio negli stereotipi ancora largamente diffusi sulla maggior potenza e velocità degli atleti neri, sull’agilità e disciplina degli atleti asiatici e sul senso tattico e della correttezza degli atleti bianchi. 

Tutto retaggio dell’epoca coloniale e dello schiavismo. Quanto al razzismo istituzionale, si riflette nell’assenza dei gruppi minoritari negli organi dirigenti, come già denunciava Edwards nel 1969. 


Ma i passi avanti, che comunque dobbiamo riconoscere, che sono stati fatti negli ultimi anni devono portarci a risolvere questi casi di razzismo, sotto ogni punto di vista.

E per dirla con le parole del professor Clastres: “Auspico corsi di formazione per tutti coloro che hanno una responsabilità nello sport, che si tratti di dirigenti, allenatori o giornalisti. Invece di spendere milioni in campagne di sensibilizzazione planetarie senza futuro, le federazioni farebbero meglio a investire il loro denaro nella formazione dei propri dirigenti, dai primi agli ultimi della scala gerarchica. Le associazioni per la lotta al razzismo sono pronte ad assumerne la gestione. Circoscrivere i gruppuscoli di hooligan che istigano all’odio in realtà è abbastanza facile. Molto più difficile è invece risolvere il doloroso problema del razzismo quotidiano. Sono convinto che è nel settore dello sport amatoriale che ci attendono le battaglie più dure e le vittorie più belle.”

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