Come e perché le aziende hanno sempre più bisogno di inclusione

Rimanere rilevanti in futuro e fare la differenza, parte dall’Inclusion Management.

Quando mi presento racconto che mi occupo di Inclusion Management da tempi non sospetti. I tempi non sospetti erano quando l’Inclusione riguardava solo l’etica, il volontariato, le ONG e la cooperazione internazionale. Sono nata in una famiglia interculturale (madre italiana e cattolica, padre ivoriano e musulmano), a 15 anni ho conosciuto il programma Erasmus + e 20 anni ho fondato la mia Associazione, per poter progettare e erogare esperienze di inclusione per giovani europei. Da quando ho 10 anni mi chiedo quale sia lo scopo profondo della mia presenza in questo mondo. La mia missione su questo pianeta riguarda il senso della mia vita, della mia storia, della mia professionalità: rendere le comunità e le organizzazioni dei luoghi in grado di generare valore attraverso l’inclusione.

Varoufakis nel suo libro “È l’economia che cambia il mondo” sintetizza la mia visione così bene che io non saprei ridirlo meglio: “La verità è che le nostre società non sono semplicemente ingiuste: sono spaventosamente inefficaci nelle misura in cui disperdono le nostre potenzialità di produrre vera ricchezza”. E così oggi i tempi non sospetti sono arrivati, così come la consapevolezza che per generare ricchezza bisogna includere (e non disperdere) il valore della diversità. Oggi inclusione e crescita economica non corrono più su due binari paralleli ma appartengono alla stessa visione, missione, proposta di valore.

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Questo, secondo il World Economic Forum, per tre ragioni:

  • Ospitare ogni giorno dei cittadini vuol dire anche saper prendersi cura di loro, almeno per 8 ore al giorno (che poi sono un terzo della giornata di ognuno di noi).

  • Il mondo cambia in fretta, e con lui le rivoluzioni sociali. Le rivoluzioni sociali, che piaccia o no, sono rumorose e necessitano di essere ascoltate. Per questo l’Unione Europea e a sua volta ogni singolo stato hanno risposto con delle regole di convivenza di matrice giuridica a cui anche le aziende sono tenute ad attenersi (come le quote rosa). 

  • Per rimanere rilevanti sul mercato, occuparsi solo di produttività non è più sufficiente. Il benessere delle persone e il loro senso di appartenenza sono la leva differenziante per garantire prosperità al business e di conseguenza sostenere la crescita economica delle persone e delle comunità. 



Ed è da qui che le aziende (e anche in Italia) hanno iniziato a occuparsi più o meno seriamente di inclusione: ad oggi, non è più una scelta. Ma cosa vuol dire per un’azienda occuparsi di Diversity, Equity e Inclusion? Tra le professioni esistenti nell’abito le tre principali sono:

  • Diversity Management: significa saper valorizzare le differenze individuali (tutte), che siano innate o acquisite. 

  • Equity Management: significa garantire a tutti le stesse opportunità di accesso e crescita nel contesto organizzativo.

  • Inclusion Management: significa stimolare appartenenza (non essere spettatori passivi, ma sentirsi ingranaggio attivo e indispensabile, parte della crescita, dell’innovazione e del cambiamento della propria organizzazione) e sicurezza psicologica (sentirsi liberi di esprimere le proprie idee e il proprio punto di vista senza essere criticati o giudicati).



Questa mutazione profonda arriva dalla necessità delle organizzazioni di essere resilienti, antifragili e generative a fronte dei cambiamenti. È il suono di un eco sociale a dire agli edifici di mattone che per rimanere rilevanti devono evolversi insieme alle comunità e alle persone. Sono anche i segnali del mercato e i sistemi di ascolto a dimostrare alle aziende che fare DE&I non è più una scelta: 

  • Nelle aziende inclusive (che quindi non solo offrono le stesse opportunità di accesso e crescita, ma stimolano appartenenza e sicurezza psicologica) si riduce l’assenteismo di 6,5 ore, la collaborazione aumenta del 57% così come la probabilità di fare innovazione (+46%).

  • I team eterogenei (quindi composti da persone con background, idee, chiavi di lettura diverse) performano il 12% di più dei team omogenei.

  • L’83% della Gen Z dice che, a parità di opportunità (stipendio, tipologia contrattuale, benefit, ecc..) l’impegno dell’azienda verso l’inclusione è un fattore decisivo di scelta.

  • Le Nazioni Unite hanno dichiarato nel 2020 17 obiettivi (i Sustainable Development Goals, obiettivi di sviluppo sostenibile) a cui più di 14.000 aziende in tutto il mondo hanno formalizzato il proprio impegno. Questi obiettivi puntano a promuovere la tutela dell’ambiente, l’inclusione sociale e la crescita economica come elementi che non sono più separati, ma che fanno parte di un’unica grande missione: promuovere la prosperità salvando il pianeta. Lo sviluppo sostenibile tenta di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle future generazioni.

  • E così anche gli investitori ripongono fiducia nei rating ESG (Environmental, Social, Governance): in quelle aziende che stanno investendo sulla sostenibilità, che hanno la forza di innovare, di stimolare vantaggio competitivo. In quelle aziende che, in un mondo che cambia in fretta, non vogliono trasformarsi in mattoni trasparenti. 



Inclusione, crescita economica, benessere delle persone, prosperità delle comunità si fondono, si concatenano, si uniscono all’interno dello stesso sistema di valori. Non occuparsi di DE&I, o farlo per finta, non basta più per far sentire le persone eccezionali e ottenere risultati eccezionali. “Walk the talk” è una delle espressioni che rende più l’idea: far parlare i fatti, andare oltre le parole, sporcarsi le mani, rendersi umani. 

Non esiste una ricetta perfetta, ma dopo aver toccato con mano processi di Inclusion Management in organizzazioni profit e no profit, 5 mantra mi risuonano in testa come direzioni efficaci per far parlare i fatti.


Inclusione sociale e crescita economica non sono in contraddizione

L’economia scorre nelle nostre vene, è parte della società e di lei è motore propulsore. Che ci piaccia o no, anche e soprattutto quando non ne siamo consapevoli l’economia è radicata in profondità nelle nostre vite. Prosperità economica significa potenziamento dell’istruzione, della sanità, significa per un certo verso anche libertà. E perciò sarebbe assurdo pensare di occuparsi di inclusione senza collegarla alla crescita economica. Inclusione significa sentirsi parte di un contesto culturale nel quale si può contribuire nel pieno delle proprie risorse. E questo è fattibile solo se c’è prosperità economica per tutti. Non è anti-etico collegare inclusione e business. È utopico e poco generativo vederli come due binari paralleli.



Non tutto il mondo è paese

Come molto spesso negli ultimi tempi, abbiamo ereditato le rivoluzioni sociali da una grande potenza mondiale: gli USA. Ma non tutto il mondo è paese. È necessario definire una direzione propria, che racconti dell’Europa e più nello specifico dell’Italia. Che racconti delle diversità, della categorizzazione sociale, delle discriminazioni intrinseche nella nostra cultura. Troppo spesso interventi di DE&I (soprattutto in aziende che hanno sedi in tutto il mondo) diventano un palese copia e incolla degli stessi processi e progetti ovunque. Stimolare omogeneità non è inclusivo, declinare in ogni cultura e promuovere unicità è un’altra storia. 



Se non c’è sostanza, ce ne accorgiamo tutti

Tamponare il trend sull’Inclusion con una campagna di comunicazione non significa fare Inclusion Management. Al contrario innesca rabbia e avversità nei dipendenti che non vedono realizzato ciò che viene raccontato e delude le aspettative dei talenti che poco dopo decidono di volare verso altri lidi. Inutile nascondersi in una pubblicità: se non c’è sostanza, ce ne accorgiamo tutti.



So di non sapere 

In Italia e in Europa la ricerca sull’Inclusion è praticamene inesistente. Bisogna investire sulla ricerca e sulle Università: è necessario avere pazienza per costruire qualcosa di valore e soprattutto farlo con metodo. Bisogna imparare ad ascoltare con coraggio le persone non dando per scontato (o per assunto) le loro necessità. 



Raggiungere il 50% di donne in posizioni manageriali non rendere un’azienda inclusiva

Garantire pari opportunità di accesso e crescita aumenta l’eterogeneità, ma non genera di per sé inclusione. Potrei avere le stesse opportunità di accedere e crescere ma non sentirmi mai inclusa e per questo non dare mai un contributo generativo a tal punto da essere di valore per me e per l’organizzazione per cui lavoro. Oltre al fatto che l’inclusione di genere non è l’unico tema di discriminazione presente nella nostra comunità. Occuparsi di inclusione significa incentivare la partecipazione di tutte le diversità.



E questo, dirà qualcuno, non basta: le aziende alla fine sono solo l’apice di un sistema sociale esclusivo che pone le radici nell’educazione, nell’istruzione, nell’intelligenza culturale e collettiva. Forse non basta, ma fa la differenza.




PER APPROFONDIRE



Sull’Inclusion Management in azienda



Sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile



Sugli ESG

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