Quello che a lezione di storia non ci hanno insegnato: Il Lindy Hop e l’appropriazione culturale nel mondo dello swing
Siamo a New York nei primi anni ‘20 del Novecento, nel pieno dell’Harlem Renaissance, un movimento socio-culturale sorto dall’esigenza di ribellione dei gruppi vittime della segregazione razziale. Questo Rinascimento - nato dalla comunità afroamericana - rivendicava, attraverso la creatività e l’arte, la propria libertà di espressione contro la visione paternalistica e razzista dei bianchi.
Sebbene in America le leggi che permettevano la schiavitù fossero state abolite con l’emendamento della Costituzione degli Stati Uniti già nel 1865, queste non hanno posto subito fine ai comportamenti discriminatori, che continuarono a permeare la società per un lungo periodo.
Solo con l’approvazione del Civil Rights Act nel 1964 la discriminazione razziale sarà ufficialmente dichiarata illegale.
Come nasce il Lindy Hop?
È in questo clima di affermazione della cultura nera nella sua identità che nasce il Lindy Hop, uno stile di ballo di coppia che conquista velocemente notorietà e si diffonde nelle grandi sale, come la Savoy Ballroom, in cui uomini e donne appartenenti a differenti gruppi razzializzati incominciavano a muovere insieme i primi passi.
Il Lindy Hop è stato inizialmente ballato ed eseguito da persone talentuose ed influenti come Norma Miller, Frankie Manning, Leon James, Al Minns e molti altri, fino a diventare un ballo che, partendo dalla comunità nera, ha poi contagiato tutte le altre comunità del mondo.
Gli elementi fondamentali del Lindy Hop sono quelli ereditati dalle culture e dai balli afro (l’improvvisazione, il ritmo, la postura e il “dialogo” tra le persone che ballano), ma si possono notare anche componenti legate alle tradizioni di altri popoli che hanno subito un analogo processo di discriminazione come, ad esempio, quelli della tap dance di derivazione irlandese.
Analizzando gli stili di ballo che hanno influenzato il Lindy Hop, secondo Frankie Manning, ritroviamo le tre realtà di social dances che erano diffuse ad Harlem negli anni ‘20, ovvero, Charleston, Collegiate e Breakaway.
Il nome è leggendariamente legato al volo transatlantico di Lindbergh del 1927: l’evento vide l’aviatore, detto “Lindy”, partire in aereo da New York per arrivare dopo 33 ore di volo a Parigi. Durante la trasvolata verso New York venne indetta una maratona di ballo; qui, George Snowden, noto ai più “Shorty George”, si era scatenato con mosse particolari e acrobazie aeree e, durante un'intervista, pare avesse dichiarato “I’m hopping as Lindy”.
La vita notturna di Harlem: musica jazz e sale da ballo
Il Lindy Hop è una realtà nata nella social dance, contesto nel quale le persone si ritrovavano per il puro piacere di ballare, nella stessa maniera in cui noi oggi andiamo a sentire un concerto live e balliamo ai festival.
La musica jazz e il Lindy Hop rappresentavano le principali fonti di svago e presto divennero uno tra i più rilevanti canali dell’integrazione sociale, in un clima in cui la segregazione razziale era piuttosto insita nella società. Tanti passi, movimenti e aerials spettacolari popolavano le sale da ballo e davano inizio a quel processo culturale che avrebbe legato strettamente la danza nera alla musica jazz.
Molti musicisti provenienti da varie parti del Paese andavano a Harlem alla ricerca di lavoro con l’obiettivo di crearsi una buona reputazione e potersi affermare nella scena locale.
Le band più apprezzate erano quelle in grado di suonare brani che viaggiavano su differenti range di tempo, da slow a fast, in modo da attirare più ballerini possibili. Anche gli stessi musicisti, quando non suonavano, si lanciavano in pista per divertirsi con qualche passo di ballo. Tra loro anche la “regina” Ella Jane Fitzgerald, nota come Ella Fitzgerald, amava ballare Lindy Hop.
Nel 1926, alla Savoy Ballroom c’erano due palchi per le orchestre, una pista superiore ai mille metri quadri, uno spazio di esibizione e il cat’s corner, l’angolo della sala dove i ballerini più bravi facevano battere talmente tanto i piedi ai clienti del locale che il gestore era costretto a cambiare il pavimento ogni tre anni.
In questo contesto idilliaco per qualsiasi lindy hopper, le grandi swing bands si esibivano a colpi di fiati e armonie con l’obiettivo di impressionare e attrarre i gusti musicali del pubblico. È questo il caso della celebre Duke Ellington Orchestra, che tra il 1927 e il 1931 ha segnato l’epoca del jazz diventando una delle band afroamericane più conosciute della storia, come anche la Chick Webb Orchestra, che vantava arrangiamenti di batteria virtuosi, la Count Basie Orchestra e la Benny Goodman Orchestra.
Un’altra realtà del ballo: le performances e gli show
Alcuni ballerini dell’epoca stavano acquisendo successo attraverso le loro performances.
Questo fenomeno, in cui venivano fuori le individualità dei migliori ballerini, consentì ad Herbert “Whitey” White, buttafuori del Savoy, di selezionare, qualche anno dopo il 1930, un gruppo che di lì in avanti sarebbe stato ufficialmente riconosciuto come il Whitey’s Lindy Hoppers.
Sulla pista del Savoy questi performers si esibivano alternandosi all’interno di un cerchio di spettatori entusiasti e altri ballerini curiosi. Durante queste jam (dei momenti di improvvisazione dei ballerini) si apprendeva attraverso l’emulazione, per poi muoversi e sviluppare il proprio stile.
In questo scenario i Whitey’s Lindy Hoppers assunsero particolare rilevanza arrivando a esibirsi al Cotton Club, rinomato locale di Harlem, e a partecipare a varie produzioni cinematografiche.
Una tra le più famose scene mai registrate si trova nel film “Helzapoppin” del 1941.
L’altro lato della medaglia: lo sfruttamento degli artisti neri
La popolarità del Lindy Hop non passò inosservata agli imprenditori di Harlem, che ne compresero rapidamente il potenziale finanziario.
Iniziò così a crearsi un microcosmo nella vita notturna di New York, dove artisti neri venivano ingaggiati per il pubblico bianco desideroso di allietare le proprie serate. L’arte, che era simbolo della tanto voluta libertà di espressione, veniva messa sui palchi di luoghi in cui la libertà non era la realtà per gli afroamericani.
Il Savoy rappresentava solo una realtà delimitata nella società americana segregazionista di quegli anni: se qui dentro snobismo e chiusura mentale sembravano dissolversi in un’ottica di divertimento su note swing, è molto importante considerare che nella maggior parte degli altri locali non era così.
Uno degli esempi più paradigmatici è il Cotton Club, locale notturno che venne chiuso nel 1936. L’aria qui era notevolmente diversa e la gestione era tipicamente segregazionista. Quando il mondo dello spettacolo si accorse del fascino “esotico” che avevano i balli e la musica afroamericana sul pubblico americano, i gestori del Cotton Club chiamarono a esibirsi ballerini afroamericani, musicisti e artisti neri, davanti a un pubblico composto dall’alta classe bianca in un contesto tipico di esclusione razziale: le persone nere potevano stare sul palco, ma non era loro consentito far parte del pubblico in nessun modo.
Queste discriminazioni erano presenti anche tra gli stessi protagonisti delle grandi orchestre, che non godevano di equi privilegi. Gli artisti bianchi raggiungevano spesso paghe più alte, erano maggiormente accolti dal grande pubblico americano e potevano contare su una carriera più sicura rispetto ai colleghi neri.
Inoltre, per gli artisti bianchi era meno probabile che la loro musica venisse “presa in prestito” da un altro artista che, con ogni probabilità, avrebbe fatto più successo. Sono vari anche gli episodi di discriminazione raccontati dalla troupe dei Whitey’s durante le interviste, e basta dare un’occhiata più analitica ai film per rendersi conto che i ballerini venivano relegati sempre a ruoli di bassa classe sociale o emarginati.
E fu così che il Lindy Hop si trasformò in uno “swing sbiancato”
Attraverso lo sviluppo degli strumenti di telecomunicazione e la sua diffusione sul grande schermo, il Lindy Hop iniziò ad avvicinarsi alla cultura americana nazionale e sempre più persone bianche iniziavano a ballare questo genere. Anche nei film, erano sempre di più i ballerini bianchi che lo portavano in scena.
Il ballo iniziò anche a diffondersi tra le truppe militari americane e, nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, venne esportato in tutto il mondo iniziando a subire un processo definito whitewashing, dove la popolazione bianca americana, che da sempre aveva mostrato interesse per la cultura musicale ed espressiva nera, adesso se ne appropriava ed iniziava a utilizzarla per i propri interessi economici e/o ricreativi.
La guerra e gli arruolamenti portarono, di lì a poco, alla fine dell’Era swing: le band si sciolsero e molti musicisti e ballerini finirono sotto le armi.
Negli anni ‘50, il Lindy Hop viene riadattato per l’insegnamento nelle sale da ballo: questo stile, standardizzato per le scuole e le competizioni, prende il nome di East Coast Swing che non ha niente a che vedere con quello che si imparava ballando nelle sale ad Harlem. Alla fine degli anni ‘80 si assistette alla scoperta del Lindy Hop in Europa.
In questo periodo ballerini come Frankie Manning, Norma Miller ed altri vennero chiamati da un gruppo di ballerini svedesi per insegnare questo ballo e da qui partì la diffusione del Lindy Hop anche in Europa.
Tuttavia, il senso di questa riscoperta del vintage è andato verso una direzione nostalgica e di recupero di particolari valori, trascinando con sé la danza e la musica dell’epoca, senza porre particolare attenzione al relativo contesto storico.
Nel 1998 la pubblicità dei pantaloni Khakis Swing di GAP mostrava chiaramente ballerini giovani bianchi che ballavano Lindy Hop in un clima felice e ordinato, che si allontanava marcatamente dalla condizione segregazionista e razzista del Cotton Club. Così facendo, la cultura mainstream si è fatta portavoce dello “sbiancamento” del jazz e delle sue forme di espressione, senza considerarne l’oscurità e gli elementi che avevano portato alla sua determinazione.
Cosa rimane del Lindy Hop originale
Il Lindy hop in Italia arriva tardi, importato dalla rilettura svedese, arrivando completamente snaturato e dipinto come un ballo americano “felice e saltellante”. Questo ballo, quindi, ha trovato la maggiore diffusione in una versione ormai scollegata dalla sua origine nera, diventando completamente “sbiancato”. Attualmente, anche gli insegnanti in giro per l’Europa sono per la maggior parte bianchi.
Dopo il Black Lives Matter anche nel mondo delle communities del Lindy Hop si è alzata forte la voce che accusa il mondo del “Lindy” di essersi dimenticato delle radici afroamericane del ballo, e di aver addirittura messo a disagio i pochi afroamericani che erano ancora presenti nelle sale da ballo.
Recuperando le informazioni sulla storia di questa danza, i ballerini di Lindy Hop in Europa oggi si trovano responsabili di un panorama storico-culturale che non può prescindere dal ballo e, purtroppo, spesso l’idea di divertimento e spensieratezza della versione attuale va a slegarsi dal contesto storico originale.
Lo stesso insegnamento attuale “sbiancato” del Lindy Hop ha sempre di più orientato questa forma di ballo verso l’esecuzione di figure perfette, schemi di rappresentazione e conteggio dei passi che hanno ben poco a che fare con l’attenzione alla musica e lo sviluppo dell’improvvisazione tipico della cultura nera americana.
In conclusione, la maggior parte di noi ballerini è ospite in una cultura e in un mondo che non abbiamo vissuto e, nella migliore delle ipotesi, abbiamo solo provato a conoscere e comprendere.
Indipendentemente dal colore della pelle o da dove viviamo possiamo decidere se fare un passo avanti verso una più riconoscente e rispettosa diffusione del Lindy Hop, partendo anche dalla diffusione della sua origine storica e culturale.
Bibliografia
Frankie Manning and Cynthia R. Millman. Ambassador of Lindy Hop. 2007
Ted Gioia. Storia del Jazz. 2011
Kendra Unruh. Swingin Out White: How the Lindy Hop Became White. 2009
Odysseus Bailer. A Blueprint For Cultural Inclusion” A Guideline for Instructors Teaching Black American Cultural Music and Dance Forms. 2022
Collective Voices For Change CVFC - Collective Voice For Change (collectivevoicesforchange.org)