In Prima Linea

Quelli che da marzo definiamo come eroi* della pandemia, hanno anche questi volti.


La settimana scorsa vi abbiamo presentato la GEN 2, o meglio, vi abbiamo presentato tre esempi di eccellenze italiane con origini altrove. Questa settimana, visto anche il periodo, volevamo dare attenzione a coloro che dall’inizio della pandemia non si sono fermati un attimo. Su di loro gravano la responsabilità di tenerci al sicuro tutt* , nessun* esclus* , dal virus come anche da tutte le ripercussioni che lo stare a casa può avere su di noi.

Mentre le nostre vite sembrano in sopseso per il momento, le loro non sono mai state così frenetiche. Tra lo stress di prendere decisioni estremamente influenti, la routine che non si riesce quasi più a spezzare, c’è anche chi crede che forse da tutto questo stiamo finalmente imparando a parlare più apertamente dei nostri sentimenti.

O almeno questo è quello che ci hanno raccontato le GEN 2 impegnate in prima linea a combattere la pandemia.



Barbara Chinonso Ugwu, infermeria

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Raccontaci di te

B: “Mi chiamo Barbara Chinonso Ugwu, sono di origini nigeriane ma sono cresciuta ad Aversa (provincia di Caserta, in Campania). Ho 24 anni.”

In cosa sei specializzata e da quanto tempo pratichi?

B:Sono un’infermiera nell’Azienda ospedaliero-universitaria Careggi di Firenze. Mi sono laureata a dicembre del 2019 all’Università di Verona ma ho iniziato a lavorare a Novembre 2020, quindi praticamente lavoro da pochi mesi.”

Hai sempre saputo che volevi diventarlo?

B: “Sì, ho sempre amato questo mondo ma la decisione finale l’ho presa a circa 17-18 anni, alla fine delle superiori più o meno. Mi piaceva l’idea di poter in qualche modo prendermi cura delle persone a 360 gradi.”

Sembra un po’ strano considerate le circostanze, ma com'è il lavoro? Sei più occupata? È più stressante?

B: “Il lavoro è bellissimo, pieno di soddisfazioni ma a volte anche di angoscia e tristezza. In questo ambito però non bisogna mai farsi prendere dalla disperazione ma bensì cercare di dare il meglio di sé ogni giorno. In questo periodo il lavoro è più pesante e quindi sono decisamente più occupata e stressata ma cerco di non pensarci, piuttosto quando posso provo sempre a riposarmi in modo da essere sempre carica e attiva quando lavoro.”

Che impatto ha avuto la pandemia sul tuo lavoro?

B: “Come ben sappiamo il Covid ha avuto un forte impatto sul lavoro di tutti i professionisti sanitari: turni di lavoro più lunghi e più stressanti, condizioni di lavoro più stancanti. Anche il semplice indossare una tuta con doppia mascherina e visiera per 7 ore può rendere la situazione più sfiancante.”

Hai dovuto affrontare particolari sfide nel tuo lavoro da quando è iniziata la pandemia?

B: “La sfida più grande che ho dovuto affrontare è stata quella di imparare a gestire un paziente affetto da Covid. La maggior parte delle volte questo virus colpisce le vie respiratorie della persona malata, di conseguenza mi sono trovata ad imparare a gestire vari macchinari che permettono la facilitazione della respirazione, tra cui caschi respiratori, varie modalità di ventilazione non invasiva, ecc...”

E come ti senti in generale? 

B: “In generale mi sento bene. Non nego che a volte vengo presa dall’ansia e dall’angoscia e mi chiedo quando finirà tutto questo. Ma cerco di essere il più positiva possibile.”

Ora che è arrivato il vaccino, tra quanto credi che cambieranno le cose?

B: “Io penso che ci vorrà almeno un altro anno prima che ritorni tutto completamente alla normalità.”

Mentre nell’immediato che impatto ha avuto?

B: “Il cambiamento più immediato è stato sicuramente la riduzione di contagi tra professionisti sanitari. Ora che il 90% di noi sanitari si è vaccinato, si sono decisamente ridotti i contagi sia tra pazienti e professionisti che tra professionisti stessi.”

Ronke Oluwadare, psicoterapeuta

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Raccontaci di te, come ti chiami, quanti anni hai e di dove sei? 

R: “Mi chiamo Ronke Oluwadare ho 33 anni e sono nata a Roma, ma da quando avevo 11 anni vivo a Crema, una piccola cittadina lombarda.”

In quale medicina sei specializzata e da quanto tempo pratichi?

R: “Sono una psicoterapeuta, quindi non sono un medico. In Italia per diventare psicoterapeuta si fa il seguente percorso: Laurea in Psicologia (3+2), un anno di tirocinio, Esame di Stato, Scuola di Specializzazione (4 anni). Io mi sono specializzata presso il Centro Panta Rei, che ha un orientamento sistemico e socio-costruzionista a Marzo 2020.”

Hai sempre saputo che volevi diventare medico?

R: “Da piccola ho sempre pensato che sarei diventata un medico. Ho iniziato a pensare che avrei voluto fare la psicologa durante le medie, non perché sapessi che cosa comportasse la professione; ma sapevo che avrei voluto fare una professione di cura e di aiuto e ascoltare le persone mi è sempre piaciuto parecchio.”

Sembra un po’ strano considerate le circostanze, ma com'è il lavoro? Sei più occupata? È più stressante?

R: “È un periodo strano per tutte le professioni immagino, ma per quella del terapeuta per la quale la relazione con il paziente è un aspetto fondamentale, l'introduzione di dettagli come la mascherina, il distanziamento fisico con il paziente e la flessibilità nella modalità (terapie online) non sono dettagli trascurabili. 

In base alla mia esperienza e quella delle colleghe con cui mi confronto, la pandemia ha legittimato le persone a volersi prendere cura della propria salute mentale quindi abbiamo notato un incremento di richieste e prese in carico.

Non mi sento più stressata, paradossalmente credo che ci sia ancor più vicinanza con i miei pazienti considerato che la pandemia la sto vivendo anch'io.”

Che impatto ha avuto la pandemia sul tuo lavoro?

R: “La pandemia, soprattutto nella prima ondata, ci ha "costretti" a cambiare il setting di lavoro passando da colloqui in presenza a colloqui online. Questo passaggio mi ha tolto la possibilità di osservare il corpo dei miei pazienti, ha modificato alcuni degli strumenti che uso in stanza di terapia e in una prima fase me li ha fatti percepire un po' più distanti. Devo però ammettere che alcuni colloqui invece hanno giovato del fatto che il paziente fosse a casa o in uno spazio che sentiva sicuro perché molte delle difese che si presentano in stanza di terapia non ci sono state.”

Hai dovuto affrontare particolari sfide nel tuo lavoro da quando è iniziata la pandemia?

R: “Il cambiamento di setting e di metodologia che ho citato nella risposta precedente credo siano state le sfide maggiori.”

E come ti senti in generale? 

R: “In generale sono fiduciosa, per mantenere il livello di fiducia alto nei confronti del futuro mi aiuta pensare che tutto passa.”

Come vedi l’italia tra 5 anni? 

R: “Non saprei, posso dirvi cosa mi auguro di vedere tra 5 anni. Mi auguro che si instauri nuovamente uno spirito di collaborazione più che di competizione e che gli atti di violenza di qualsiasi tipologia diminuiscano drasticamente.”





Sabrin Abboud, specializzanda in cardiochirurgia

Raccontaci di te, come ti chiami, quanti anni hai e di dove sei?

S: “Mi chiamo Sabrin Abboud, ho 29 anni sono nata  in Sicilia, ma ora vivo a Milano, dove lavoro all'Ospedale San Raffaele.”

In quale medicina sei specializzata e da quanto tempo pratichi? 

S: “Mi sto ancora specializzando in cardiochirurgia e sono al terzo anno di cinque.”


Hai sempre saputo che volevi diventare medico? 

S: “Sin da bambina, riparavo bambole rotte, amavo prendermene cura. All’epoca ero convinta di voler  fare la pediatra, ma poi con il tempo ho scoperto la cardiochirugia e non mi sono più guardata indietro.”


Sembra un po’ strano considerate  le circostanze, ma com'è il lavoro? Sei più occupata? È più stressante?

S: “Assolutamente sì! È la mia prima esperienza lavorativa in una situazione simile, e non ho modo di interrompere la routine ‘lavoro-casa-lavoro’, nonostante io ami il mio lavoro, mi fa soffrire come anche molti colleghi. Fortunatamente il mio ospedale controlla con molta attenzione tutto il personale coinvolto nell'emergenza, con un supporto psicologico interno per prevenire i burnout.”


Che impatto ha avuto la pandemia sul tuo lavoro?

S: “Nel mio ospedale durante la prima ondata abbiamo costruito nuove unità di terapia intensiva, e nuovi reparti con task force speciali per affrontare l'emergenza, composta da un team multidisciplinare di medici di terapia intensiva, malattie infettive, medicina interna e immunologia che ha sviluppato algoritmi di trattamento omogenei sulla base delle evidenze disponibili per standardizzare la gestione dei pazienti con COVID-19, compresa la gestione in reparto e in terapia intensiva e la somministrazione di farmaci antivirali e immunomodulatori. Tutto nel giro di pochi giorni. Ancora oggi i protocolli vengono periodicamente rivisti e aggiornati non appena diventano disponibili nuove prove. 




Hai dovuto affrontare particolari sfide nel tuo lavoro da quando è iniziata la pandemia?

S: “La sfida è stata senza dubbio la mancanza di conoscenza e terapie, ma abbiamo adottato nuovi protocolli oltre alle attività cliniche, sono stati portati avanti progetti di ricerca importanti per trovare nuove strategie e terapie più efficaci per affrontare al meglio un'emergenza sanitaria senza precedenti in Italia. Ma la cosa più difficile per me è parlare con i parenti di questi pazienti, per la prima volta nella mia vita vedo persone che muoiono da sole senza vedere i loro cari, è davvero impressionante. Ma cerchiamo di dare un supporto psicologico per superare questo periodo difficile.”




E come ti senti in generale? 

S: “La sensazione generale è che mi sento un po’ derubata della mia vita, anche perchè sono sempre in ospedale. “

Come vedi l’italia tra 5 anni? 

S: “Non so come usciremo dalla crisi economica, ma di indole sono positiva, perciò sono speranzosa.”

Ifeoma Nneka Emelurumonye, dirigente sanitario

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Raccontaci di te, come ti chiami, quanti anni hai e di dove sei? 

I: “Mi chiamo Ifeoma Nneka Emelurumonye, ho 31 anni e sono nata a Roma. Dopo pochi mesi dalla mia nascita la mia famiglia si è spostata nelle Marche, in provincia di Ancona, dove sono cresciuta.  Mentre dal 2016 vivo a Torino.”


In quale medicina sei specializzata e da quanto tempo pratichi?

I: “Mi sono specializzata a Torino in Igiene e Medicina Preventiva, una specializzazione che forse  questa pandemia ha reso più nota, ma che è sempre stata abbastanza sconosciuta in quanto si discosta molto dalla medicina tradizionale, avendo una impronta più gestionale e manageriale. Gli igienisti si confrontano principalmente con altri medici, direttori di strutture sanitarie e diversi tipi di autorità (per esempio Forze dell’Ordine e politici) ed altri tipi di professionisti (ingegneri, architetti, avvocati, etc.). Questo perché lavoriamo nell’ambito della sanità considerando non la singola persona ma il gruppo, cioè a livello di popolazione, occupandoci ad esempio di prevenzione, educazione sanitaria, vaccinazione, malattie infettive, sanità internazionale, igiene ambientale e molto altro. Dopo che mi sono specializzata sono stata assunta da metà novembre come Dirigente Medico in Direzione Sanitaria di un ospedale piemontese. Durante la specializzazione si lavora e si frequentano alcune lezioni, quindi posso dire che pratico da quattro anni, con un focus maggiore in ambito di direzione medica da settembre 2019.”


Hai sempre saputo che volevi diventare un medico?

I: “No,  in realtà ho sempre saputo che se non fossi stata in grado di mantenermi come sportiva, mi sarei dedicata allo studio, prediligendo le materie scientifiche che erano quelle in cui andavo bene. Biologia è sempre stata la mia materia preferita e quando ho studiato sommariamente il corpo umano al liceo ho capito che poteva essere quella l’alternativa al tennis, sport per me troppo costoso per intraprenderlo come professionista. Quindi dopo che sia io che i miei genitori abbiamo abbandonato l’idea che potessi diventare la Serena Williams italiana, mi sono buttata a capofitto in questo percorso dando tutta me stessa e devo dire di essere fortunata di amare la medicina. Non è scontato.”


Sembra un po’ strano considerate le circostanze, ma com'è il lavoro? Sei più occupata? È più stressante?

I: “Ormai da marzo vivo, anzi viviamo perché poi condivido questi pensieri con altri colleghi, in uno stato di tensione ed allerta continua. Anche in estate, quando sicuramente i casi positivi erano scesi e sembrava di essere tornati alla normalità, dovevamo comunque riprendere tutte le attività sospese a causa della emergenza e abbiamo lavorato con poche e brevi soste per far ritornare gli ospedali come erano prima. Poi a settembre siamo tornati in emergenza, e ho iniziato a rivivere quello che era successo a marzo, come un Dèjà vu. Purtroppo non c’è un momento delle mie giornate che non sia dedicato al mio lavoro ed in particolare al COVID, e da un punto di vista mentale è stressante e deleterio.”


Che impatto ha avuto la pandemia sul tuo lavoro?

I: “È tutto monotematico. Come ho menzionato prima, l’igienista lavora su moltissimi fronti, ed è anche il bello di questa branca. Ora tutto è incentrato sul coronavirus, per ovvi motivi. D’altra parte è sicuramente un’ esperienza lavorativa importante (parliamo sempre di una pandemia di interesse globale) e di grosse responsabilità. Essere medico già di per sé è una grande responsabilità ma devo dire che è come se la pandemia abbia aggiunto tonnellate e tonnellate di rocce sopra le mie spalle. Purtroppo non si riesce a lavorare totalmente sereni e senza aver paura costantemente di sbagliare, essendo una malattia ancora poco conosciuta nell’insieme.”


Hai dovuto affrontare particolari sfide nel tuo lavoro da quando è iniziata la pandemia?

I: “Sì, soprattutto a livello emotivo e decisionale. Emotivo nel non perdere la razionalità nelle cose che faccio, affrontare possibili crolli emotivi e fisici e non perdere la speranza. Decisionale in quanto come ho menzionato prima, la pandemia ha aumentato il peso delle nostre responsabilità, in quanto ogni nostra decisione ha un impatto non solo sanitario, ma anche politico e sociale. Come avete potuto notare ormai tutte le decisioni che vengono prese, appaiono subito in televisione, nei giornali e tra le bocche delle persone. Più volte magari facendo la fila alle poste, o in bus ho sentito commentare positivamente e negativamente l’operato di noi medici. Ora da eroi siamo diventati delle persone ignobili, bugiardi che continuiamo a lamentarci degli ospedali pieni, mantenendo un paese in lockdown. Quindi ancor di più in questo momento, ogni scelta che facciamo è sempre molto difficile, e quindi una continua sfida (parlo spesso in prima persona plurale perché lavoro sempre in team colleghi igienisti, prendendo decisione condivise, fin quanto si può ovviamente.)”

E come ti senti in generale? 

I: “Purtroppo non riesco bene a definire il mio stato generale da un po' di tempo. Come ho detto ad amici, appena sarà possibile, e cioè quando questa malattia sarà efficacemente controllabile, vorrei farmi almeno un intero mese (ne vorrei fare anche due o tre ma credo non sarà mai possibile), lontano da tutto e tutti, per potermi riposare veramente e anche curare me stessa da tutto lo stress che ho sottoposto il mio fisico e la mia mente. Sono sicuramente esausta ma dovendo ancora combattere questa malattia, non voglio cedere di un passo e quindi cerco sempre di essere positiva, attiva e nei piccoli ritagli liberi fare altro che non sia connesso all’emergenza.”


Come vedi l’Italia tra 5 anni?

I: “Dipende in che contesto. A livello sanitario purtroppo non benissimo in quanto per anni si sono fatti tagli economici sulla sanità che hanno portato carenze di personale a causa sia di pochi concorsi di lavoro che a causa di poche borse di studio per le specializzazioni mediche ogni anno disponibili. La pandemia ha inasprito e messo alla luce di tutti questa situazione, e ci vorrà molto tempo secondo me per risanare la situazione. A livello culturale e sociale, vedendo anche tramite i social ed internet, credo (e spero) che l’Italia avrà finalmente sempre più ragazzi di seconda e terza generazione in diversi ruoli e cariche sociali paese che non siano i soliti stereotipi sulle persone straniere a cui siamo purtroppo abituati. E finalmente già qualcosa di diverso sto vedendo, nella mia professione, nella politica, nella educazione ed in altri ambiti. Inoltre spero di vedere sempre più ragazzi di altre etnie ed origini in ambito sanitario: troppe volte mi sono ritrovata ad essere l’unica figura non bianca sia all’università che poi in ospedale. E spesso mi si diceva che la medicina è lunga e costosa, quindi non accessibile a tutti. Lo confermo. Ma essendo figlia di genitori immigrati a cui non stati riconosciuti i titoli di studio e dovendo dunque accettare lavori non attinenti alle loro qualifiche, confermo anche che volere è potere e che nulla è impossibile. Non sono un genio, magari secchiona, ma non ho doti particolari e vengo da una famiglia di ceto medio. Ma questo non mi ha impedito di inseguire i miei sogni e cercare di dare un contributo a questo mondo. Noi facciamo parte della ricchezza di questo paese. Forse ancora l’Italia non se ne resa conto, ma presto lo capirà.”












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