Non chiamarci Z*ngar*: l’importanza di fare coming-out etnico

Nella maggior parte delle lingue, alla parola "z*ngar*" viene attribuito un significato offensivo ed è perciò una parola rifiutata da noi Rom. 


È “Roma” la parola da considerarsi corretta per identificare tutti i gruppi correlati, indipendentemente dal loro paese di origine. “Roma” è divenuto il termine globalmente accettato dal 1971, cioè da quando i rappresentanti della comunità Rom hanno adottato la bandiera, hanno scelto l’inno “Djelm Djelem” e convalidato la giornata internazionale di tutta la comunità Rom, ricadente l’8 aprile. Per comprendere come la comunità sia giunta ad autodefinirsi sotto questa parola, è giusto compiere un breve viaggio storico della mia minoranza etnica, che parte dallo studio della lingua poiché la storia della comunità Rom è stata tramandata per via orale e non scritta.


Analizzando il romanes - la lingua Rom - gli storici hanno scoperto che le origini della comunità Romanì derivano dall’India settentrionale; si suppone che la comunità sia giunta in Europa all’incirca a partire dal IX° secolo. Da qui, però, prende avvio una storia spesso discriminante nei confronti dei Rom. Sappiamo che in molte regioni europee i Romanì furono costretti alla schiavitù, una pratica che continuò fino al XIX° secolo in Romania e altrove. 


Un esempio che reputo fondamentale per comprendere il livello di discriminazione insediatosi nella nostra cultura fa riferimento alle politiche promosse dalla Regina Caterina d’Aragona che durante il suo regno vietò l’uso della lingua romanes. I disobbedienti si sarebbero ritrovati con la lingua tagliata. Per questo motivo esiste ancora oggi in Spagna uno stigma molto forte che riguarda la lingua rom. Tuttavia, molti giovani romanì - nonostante questo annientamento linguistico - sono riusciti a recuperare il proprio orgoglio gitano, ribaltando la passata concezione culturale. 


È più noto ciò che avvenne durante gli anni ’30, sotto la dittatura nazista, quando centinaia di migliaia di rom vennero uccisi in quello che la mia cultura ricorda come “Samudaripen” o “Porrajmos”. Nella contemporaneità, invece, tra gli anni ’70 e gli anni ’90, in Repubblica Ceca, Svezia e Slovacchia migliaia di romanì vennero forzatamente sterilizzate.  


La parola "Roma" significa "Essere umano"; la parola “Rom”, invece, rappresenta l’”uomo” così come la parola “Romni” rappresenta la donna. Proprio per questo significato, la parola Roma si riferisce a molti sottogruppi diversi; tra cui i Kalderash nell'Europa sud-orientale, i Romanichals in Inghilterra, i Sinti in Germania, Italia e Francia, i Kalé in Galles, Finlandia, Spagna e Portogallo e i Gitanos dalla Spagna. Naturalmente, questi sono alcune dei gruppi tra le tantissime presenti, ma tutte si riconoscono in un’unica lingua, il romanes.


La Giornata Internazionale della Lingua Romanes, che si celebra il 5 novembre, nasce proprio grazie al riconoscimento da parte dell’Unesco della stessa lingua come patrimonio culturale mondiale. Per questo, nel 2015, il Consiglio d’Europa riunitosi a Strasburgo invitò tutti gli Stati membri a intensificare gli sforzi per riconoscere, proteggere e promuovere la lingua Romanì in Europa. Ad oggi, però, solo sedici Stati dell’Unione Europea hanno riconosciuto il Romanes come lingua protetta dalla Carta Europea delle lingue regionali e minoritarie, tra cui: Austria, Bosnia-Erzegovina, Finlandia, Germania, Montenegro, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Svezia, Ucraina e Ungheria. Tra gli Stati che mancano all’appello, purtroppo, c’è anche l’Italia, nonostante il popolo Rom sia la minoranza etnica più presente nello Stivale e nel mondo. La maggior parte del popolo Romanì italiano non è nomade: informazione, questa, necessaria per cercare di abbattere uno dei tanti e più ignoranti pregiudizi sulla mia comunità. La restante parte della comunità Romanì che tutt’oggi sceglie o si trova in una condizione di nomadismo vive per lo più in Irlanda, in Inghilterra, in India e in Africa. 

Nonostante tutto ciò che finora ho scritto, la storia e la cultura dei Rom continua ad essere definita per mezzo di stereotipi. Nel corso del tempo, infatti, il termine “z*ngar*” si è via via normalizzato fino a rientrare appieno nella quotidianità. Ma ben pochi conoscono il reale significato di questa parola che sarebbe da tradursi letteralmente come “schiavo”. 

Sono molteplici i falsi miti e false rappresentazioni che ruotano intorno la vita di noi Rom. Ho già citato prima i dati che smentiscono quella che si dice essere un’attitudine dei Rom verso una vita nomade. Ma non ho specificato che questa falsa convinzione nasce da due presupposti: il primo riguarda il legame che la comunità ha instaurato con le proprie tradizioni piuttosto che con uno specifico territorio. “Noi non abbiamo niente, se non il cielo e la terra”: è una frase tipica di noi Rom che rappresenta un legame intrinseco verso la libertà; al di là della religione, della nazione o quant’altro. 

Il secondo presupposto, che riguarda per lo più l’Europa, fa riferimento al più grande esodo post-guerra mondiale della comunità Romanì. Si tratta della Guerra dei Balcani. Molte famiglie Romanì - stanziate ormai da anni nell’Europa dell’Est - furono costrette a migrare per via della guerra. In Italia i cosiddetti “campi” esistevano dapprima degli anni ’90, ma con il sopraggiungere dei profughi provenienti dall’Est vennero costruiti nuovi campi. Ciò che più fa riflettere è che se in un primo momento a tutte le famiglie venne riconosciuto lo status di profugo, dopo pochissimo tempo si iniziò una suddivisione dei gruppi su base etnica. Per cui molti dei Romanì scappati dalla guerra si trovarono in campi differenti, campi, cioè, per z*ngar*. Da profuga della guerra dei Balcani ho vissuto nei “campi solo per Z*ngar*” perché “colpevole” di essere una di loro. E nonostante razionalmente sappia di non essere colpevole, mi ci sono voluti anni prima di non provare quel senso di colpa, essendo cresciuta in un contesto dove la mia generazione e tutte quelle venute prima di me sono state considerate “ladri”, “sporchi”, “inferiori”. È proprio questo il risultato di una storia raccontata male, fatta di discriminazioni in cui la persona non è mai considerata tale (disumanizzazione), una comunità non è mai vista senza il filtro dell’odio. A causa di queste narrative diventa quasi impossibile provare un senso di empatia verso uno “z*ngar*”. 


A ricordarci di queste posizioni disumanizzanti basta la cronaca attuale: basti pensare ai fatti avvenuti a Torre Maura, poi a Casal Bruciato. Ricordiamo, inoltre, il caso della bimba di appena undici mesi, sparata alla schiena da un uomo che “voleva solo provare la pistola” dalla finestra.


Il 19 giugno scorso, a Tepice, in Repubblica Ceca, un cittadino ceco di etnia rom, Stanislav Tomas, viene fermato e ucciso dalla polizia. Stanislav è morto come George Floyd; senza, però, che nessuno se ne sia preoccupato, senza alcun impatto mediatico. Lo stesso giorno gli abitanti di un campo rom in Francia vengono assaliti da una folla inferocita e costretti a fuggire. Anche stavolta, anche loro, vengono accusati di un crimine che non hanno commesso solo in virtù del fatto che sono “Z*ngar*”. E ancora oggi in Italia continuano gli sgomberi forzati che buttano le nostre comunità per strada - senza fornire alcuna alternativa - creando un cerchio di emarginazione e disagio sociale senza fine. Tra l’altro, sembra davvero assurdo che negli anni ’70 l’Italia si è dotata di una legge ad hoc per istituire i “campi attrezzati” - legge pensata proprio per gli attuali “campi nomadi” - che oggi vengono, invece, sgomberati. Prima l’Italia crea i campi, poi li riempie, poi li sgombera ma la colpa è sempre dei rom. 


Car* lettor*, prima di leggere questo articolo, quanto ne sapevi sui Rom? Quanto pensavi di saperne? Ma soprattutto, dopo averlo letto, te la sentiresti di scendere in piazza per manifestare con noi?


Tutto ciò che si è detto sopra ha causato una totale marginalità dei Rom dalla vita politica e sociale. Da una parte siamo invisibili, dall’altra siamo un bersaglio, un capro espiatorio perfetto per i mali sociali. Proprio per questo molti romanì non vogliono esporsi, annientando la loro appartenenza etnica. Molti tra i tuoi vicini di casa, i tuoi insegnati, i tuoi medici, possono essere Rom senza avertelo mai detto. Dovremmo poter esprimere la nostra identità culturale eliminando questa impronta da cui siamo ricoperti.  Elvis Presley, Antonio Banderas, Michael Caine, Charles Chaplin, Rita Hayworth, August Krogh; sono alcuni tra i più famosi romanì nella storia. 

È necessario, dunque, fare un “Coming Out Etnico”, è necessario combattere l’Antiziganismo, è necessario creare un “Roma lives Matter”. Insomma, è necessario non chiamarci Z*ngar*, ma chiamarci Roma! 


Sam Barikane Roma! Proud to be Roma!


*Ivana Nikolic nata a Novi Sad (Serbia) nel 1991. Artista e attivista Romnì, vive sulla sua pelle il conflitto Serbo-Bosniaco. Arriva con la famiglia in Italia nel 1993 e vive i suoi primi anni in un campo nomadi di Torino. Riceve il premio del CILD (categoria Voce Collettiva) nel 2015. Nel 2018 viene riconosciuta come artista dall’European Roma Institute for Arts and Culture (ERIAC). Nel 2020 porta in scena il suo spettacolo di denuncia sociale “Non chiamateci zingare” e nel 2021 nasce il suo podcast “+ Rom - Rum”.

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