GEN 2: attivista o non attivista, questo è il dilemma
Maurizio Talanti e Denise Kongo entrambi impegnati socialmente ci raccontano tutti i retroscena a riguardo.
Del termine attivista non si fa che discutere — sia online che offline — c’è chi ritiene che venga utilizzato a sproposito e chi ritiene non sia pronunciato abbastanza. Ma in tutto questo c’è un punto di vista importante che non viene quasi mai preso in considerazione, ovvero quello di chi è socialmente impegnat*. Appiattendo così la discussione, ogni ulteriore accezione che il termine può avere e non lasciando alcuno spazio a come e quanto ci si possa identificare con il vocabolo stesso. Proprio questo abbiamo voluto fare qualche chiacchiera con un ragazzo e una ragazza molto attivi nell’ambito e sapere cosa ne pensano di questa parola.
Maurizio Talanti
Quando è ora di presentarti cosa ti piace raccontare di te?
MT: “Quando mi presento mi piace far emergere delle discontinuità narrative che raccontano di chi sono. La mia è un storia che comincia in una Città della Colombia il cui nome onora un cacique amerindio, una storia ricca d’estati profumate dello Iodio delle coste della Sardegna, la storia di un bisnonno partigiano e di un pezzo di cuore che chiama casa: i monti di Bamenà in Camerun.”
Quando ti chiedono da dove vieni cosa rispondi?
MT: “Ho imparato negli anni a voler trarre un personale momento di divertimento quando mi viene posta questa domanda. Tipicamente la mia risposta è ‘Sferracavallo!’: la piccola, sconosciuta frazione del comune di Orvieto in cui sono cresciuto. Lo faccio perché in questa verità, nella realtà della mia storia personale si trova la risposta più opportuna a chi, indagando sulle provenienze, non vuole far altro che mettere in discussione le esistenze come la mia. Lo sguardo di confusione che spesso mi viene restituito ho imparato a trovarlo quasi divertente, perché davvero non posso continuare a prendere sul serio la limitatezza di certi soggetti.”
Sai perché abbiamo “coniato” il termine GEN 2? Che ne pensi? Ti ci identifichi?
MT: “In un certo senso io vengo spesso socializzato e percepito come un GEN 2 ma la mia esperienza se devo dirla tutta è quella di un GEN 0. Se da un lato anche la mia è stata l’esperienza di crescere da persona razzializzata in Italia, dall’altro sono la prima generazione di persona non bianca della mia famiglia. Questo per raccontare che il mio è un percorso di adozione, consapevole dei privilegi che derivano da questo posizionamento ma è anche un percorso di riappropriazione, di restituzione personale profondamente legato alla volontà di essere coalizione con le comunità razzializzate, marginalizzate e fragili del Paese.”
C’è qualcosa che le persone sbagliano sempre su di te quando ti incontrano per la prima volta?
MT: “Io sono un’anima solitaria, introspettiva, riflessiva e profondamente gelosa del perimetro di intimità in cui riesco e voglio essere completamente me stesso. Probabilmente perché l’impegno politico degli ultimi 17 anni mi ha insegnato, per mantenere la passione e la determinazione, a separate il mio profilo pubblico dalla dimensione privata.”
Quello che fai ora è quello che hai sempre voluto fare?
MT: “È parte di quello che avrei voluto fare. Festival Divercity è una fucina di elaborazione pesante e complessa, spesso è più faticoso decostruire e semplificare molte delle riflessioni che nascono in seno all’associazione che porre un limite massimo alle cose da fare.”
Quali difficoltà hai incontrato/stai incontrando nel tuo percorso?
MT: “Le difficoltà, quando ci sono, sono quelle di trovare interlocuzioni che siano immediate, in cui i canali comunicativi che non abbiano bisogno di contestualizzazioni, di parentesi, di riferimenti, di chiavi di lettura che a volte traducono soltanto parzialmente la complessità di quello che facciamo e di chi siamo come soggetti non bianchi in un Paese che, anche fuori dall’intolleranza, spesso è carente nella comprensione di percorsi e storie esterni a quello della narrativa dominante.”
Come sei diventato attivista?
MT: “Io non mi definisco attivista, perché in un certo senso rifiuto la politicizzazione di quello che, come tali, facciamo. Dal 2021 sono Direttore Artistico di un Festival culturale ed artistico che è impegnato nella lotta al razzismo e a tutte le discriminazioni. Sono convinto che questa definizione movimentista del nostro impegno sia spesso un limite. Molti di noi scrivono, altri creano, altri ancora fanno comunicazione e molto altro… Ed è sulla dignità di quello che facciamo effettivamente dovremmo essere misurati. In più dal 2005 sono coinvolto, con responsabilità diverse, all’interno della vita politica della mia città e della mia regione. Sono stato Consigliere Comunale della mia Orvieto, sono stato Coordinatore Regionale di ANCI su Ambiente e Cooperazione Internazionale, sono stato membro del Board di un Ente di Cooperazione Internazionale e da più recentemente sono Il responsabile regionale dei temi ambientali, dell’agricoltura e del turismo di un’organizzazione politica.”
Immagino tu sia molto emotivamente coinvolto nel tuo lavoro, quali pro e quali contro ha tutto questo?
MT: “Non esistono contro. Esistono inconvenienti, ma non potrei partecipare a niente di tutto ciò a cui partecipo se non fossi convinto che è la cosa giusta. Nel lavoro c’è completa identità tra me e le mie responsabilità. Da anni ormai sono impegnato nel mondo del benessere, dei piaceri, della vitivinicoltura, dell’ospitalità di lusso e del design e le relazioni, la creazione di connessioni che generano cura ed esperienze da ricordare è sicuramente ciò per cui sono naturalmente vocato. In questo l’unico contro è quanto faticoso sia dare sempre se stessi onestamente e sinceramente, spesso risulta drenante, ma i risultati e le soddisfazioni rendono tutto più piacevole. Per quel che riguarda il lavoro più sociale e di impegno politico e associativo, il tema secondo me è che per la maggior parte di noi, che ha una piattaforma, che ha legami, che ha sistemi di sostegno e di supporto rinuncia a parte del proprio privilegio di posizionamento quando decide di lavorare nella direzione della lotta alle discriminazioni. Rinunciare al proprio comodo ‘anonimato’ ed in un certo senso fare della propria vita e della propria testimonianza un ‘lavoro’ è qualcosa che non si può fare per opportunità ma solo per convinzione.”
Di cosa vai più fiero?
MT: “Di molte cose. Vado fiero di poter navigare la mia bellissima Umbria e di trovare, quasi 4 anni dopo la fine del mio mandato, elementi concreti che sono eredità della mia azione amministrativa. Vado fiero della stima dei miei tanti clienti, della maniera con cui mi ripaga il loro entusiasmo e la loro gioia quando riescono ad immergersi nel territorio che ho il piacere di raccontare per professione.Vado fiero delle piccole cose e di quanto di poco scontato ci sia nel nostro sforzo quotidiano di creare spazi, accesso, visibilità.”
La pandemia che impatto ha avuto sul tuo lavoro?
MT: “La Pandemia ha aggiunto uno strato di complessità all’analisi e alle risposte che dobbiamo trovare. La Pandemia e l'emergenza sanitaria hanno fatto emergere ancora di più le interconnessioni sistemiche che riguardano la vita, i destini ed i bisogni delle persone non bianche. La chiarezza che questo scenario ci ha riportato è un dato che non potremo più ignorare.”
E sulla tua vita più in generale?
MT: “Io sono molto fortunato, nella pandemia, nella lontananza, nelle chat di clubhouse io ho trovato molto di quello che faccio oggi. E nella “profanità” della vita fuori dall’azione e del lavoro con il festival mi occupo di un settore che virtualmente non ha visto crisi in questi anni appena trascorsi.”
A quasi 2 anni da maggio 2020, senti che le cose stanno cambiando anche in Italia? Se sì, come?
MT: “Molte cose sono sicuramente cambiate, ma dobbiamo prestare attenzione all’effetto yo-yo, dobbiamo vigilare che non vengano fatti passi indietro e assicurarci che delle tante possibili normalizzazioni che il tempo porta con sé ad essere resi normali non siano le ingiustizie che ancora sussistono.”
Come ti vedi tra 5 anni?
MT: “Mi vedo ancora preso ad essere me stesso, probabilmente con una famiglia, probabilmente starò costruendo uno spazio familiare in cui passare i ‘saperi locali’, che sono le lezioni che da soggetti non bianchi impariamo ogni giorno, ad una nuova generazione. Probabilmente per i miei figli spererò che essere se stessi non debba essere una questione politica e che la loro bellezza possa essere sempre gloriosa e mai aliena.”
DENISE KONGO
Quando è ora di presentarti cosa ti piace raccontare di te?
DK: “Personalmente mi piace parlare di quello che faccio quando devo raccontare chi sono, soprattutto in questo periodo mi sto dedicando a diverse attività di volontariato, partecipo a progetti di cooperazione internazionale e la cosa mi rende entusiasta. Penso che dalle mie azioni si possa capire anche che tipo di persona sono a livello caratteriale. Mi definisco spesso una mediatrice culturale di base perché ho studiato per fare questo, anche al momento mi occupo di project management, da poco ho iniziato a definirmi anche attivista, insomma per parlare di me parto dalle mie passioni.”
Quando ti chiedono da dove vieni cosa rispondi?
DK: “Rispondo sempre che sono di Roma perché semplicemente è la verità, ci sono nata, cresciuta e ci vivo, a volte non servirebbe nemmeno specificarlo perché lo si capisce dal mio accento. Sono consapevole del fatto che spesso dietro a questa domanda ci sia la voglia di sapere altro. Non ho nessun problema a parlare delle mie origini con chi è curioso di sapere quali siano, ne vado molto fiera, sono italo – congolese, ma mi piace comunque rispondere sempre come prima cosa che vengo da Roma, lasciando che sia chi mi ha posto la domanda a dover specificare se gli interessa la mia parte straniera e non quella italiana.”
Sai perché abbiamo “coniato” il termine GEN 2? Che ne pensi? Ti ci identifichi?
DK: “Penso si riferisca alle seconde generazioni, ai figli e alle figlie degli immigrati in Italia. Io sono una seconda generazione in quanto figlia di un congolese immigrato in Italia quindi mi si addice come termine secondo me, anche se alcuni ritengono che io sia una ‘mezza seconda generazione’ perché mia madre è italiana. Più in generale ritengo che siamo arrivati al punto in cui in Italia non ci sono più solo seconde generazioni ma anche le terze, le quarte e via dicendo, se si continua ad andare avanti per numerazione si rischia di creare confusione, credo che si debba cominciare a parlare semplicemente di generazioni future, di generazioni nuove, non si può contare in eterno.”
C’è qualcosa che le persone sbagliano sempre su di te quando ti incontrano per la prima volta?
DK: “Sempre no, ma penso sia normale che ad un primo sguardo non si riesca a capire tutto di una persona, so che in passato è capitato che delle persone si siano stupite di alcune cose che ho fatto perché non credevano fossero nelle mie corde ma per il resto non saprei.”
Quello che fai ora è quello che hai sempre voluto fare?
DK: “No e ne sono felice. Quello che faccio ora non è un piano B comunque, è che io nella vita non ho mai avuto un vero e proprio piano A. Non ero la tipica bambina che sapeva già cosa voleva fare da grande, ho sempre voluto fare tante cose contemporaneamente, avendo in mente per me stessa mille ipotesi diverse di futuro, L’idea di un percorso lineare, univoco e preciso non ha mai fatto per me, ho cambiato idea spesso, sempre con l’unico obiettivo di voler essere felice e fare quante più esperienze possibili. Ad oggi apprezzo tutte le svolte che ha preso la mia vita, anche di quelle che in un primo momento potevano sembrare sbagliate perché proprio quelle scelte inesatte mi hanno permesso di mettermi in discussione facendomi entrare in contatto con persone che ancora oggi tengo legate al cuore.”
Quali difficoltà hai incontrato/stai incontrando nel tuo percorso?
DK: “La principale difficoltà in passato è stata innanzitutto definire il mio percorso in modo tale che si confacesse alla mia voglia di ricevere diverse tipologie di stimoli, sono felice del fatto che la mia vita professionale sia variegata. La difficoltà da superare al momento è quella di trovare una stabilità a livello lavorativo continuando a fare quello che amo, ma mi sto impegnando per riuscirci.”
Come sei diventata attivista?
DK: “Faccio molta fatica a definirmi attivista, ho iniziato da poco ad usare questo termine riferendolo a me stessa perché lo percepisco come un titolo che va meritato e cerco di fare quanto posso per sentirmelo bene addosso. Detto ciò io credo di essere arrivata a questo punto perché sono figlia di due persone molto combattive che mi hanno insegnato ad agire per cambiare ciò che non ritenevo giusto. La mia famiglia si è sempre battuta per la salvaguardia dei diritti e la lotta alle discriminazioni e mi hanno coinvolta fin da piccola nelle loro iniziative. È da loro che ho imparato ad avere a cuore non solamente il mio futuro, ma anche quello di persone che vivono in contesti diversi dal mio, che hanno delle difficoltà maggiori e che magari non hanno i mezzi per superarle. Facendo da sempre volontariato ho conosciuto contesti e persone con i miei stessi ideali quindi negli anni l’attivismo è venuto un po’ da sé. Dopo essere entrata nell’associazione QuestaèRoma ho capito che l’attivismo fa e farà parte della mia vita, l’associazione mi sta dando tanto e mi permette ogni giorno di fare qualcosa di concreto per cercare di migliorare il mondo in cui vivo.”
Immagino tu sia molto emotivamente coinvolta nel tuo lavoro, quali pro e quali contro ha tutto questo?
DK: “Sì direi che il coinvolgimento emotivo guida gran parte delle mie scelte professionali, il che non credo sia un male perché riesco ad amare quello che faccio e a guardare sempre all’obiettivo che voglio raggiungere. Il mio trasporto è un motore di cui non posso fare a meno per lavorare. Certo ovviamente come in qualsiasi contesto le emozioni non devono prendere troppo il sopravvento perché l’obiettivo che ci si pone potrebbe risentirne. C’è da dire che occupandomi di tematiche che mi coinvolgono va a finire che me le porto dietro anche nel tempo libero, per esempio, l’attivismo mi porta a ragionare su diverse tematiche a cui non smetto di pensare a comando, la capacità di staccare è necessaria.”
Di cosa vai più fiera?
DK: “Non saprei dire una cosa sola di cui sono fiera al momento, sono fiera di far parte di diverse realtà, sono fiera di me stessa e di ciò che sto costruendo intorno a me, posso dire di essere molto fiera delle persone con cui ho l’opportunità di collaborare e di quelle persone che considero amiche.”
La pandemia che impatto ha avuto sul tuo lavoro?
DK: “Io non lavoravo prima della pandemia, stavo studiando e l’ho fatto quanto più velocemente possibile per poter cominciare un percorso lavorativo. Ho iniziato in smart working ed è ancora così, mi ci trovo bene ma anche poter andare al lavoro fuori da casa mia non mi dispiacerebbe in futuro.”
E sulla tua vita più in generale?
DK: “É stato un periodo tosto, ma direi che l’ho saputo sfruttare per conoscermi meglio e capire cosa volere per me stessa.”
A quasi 2 anni da maggio 2020, senti che le cose stanno cambiando anche in Italia? Se sì, come?
DK: “Chiaramente l’esperienza della pandemia ha portato alcuni cambiamenti ad esempio nel modo di gestire la propria vita quotidiana e il lavoro, certo abbiamo dovuto imparare a vivere in una nuova forma di realtà, abbiamo avuto modo di conoscere una nuova versione di noi stessi ma non penso che l’Italia sia cambiata in meglio, non tanto quanto ci si aspettava almeno.”
Come ti vedi tra 5 anni?
DK: “Non saprei nello specifico, sicuramente so che ora sto ponendo le basi quello che verrà, nuovi lavori poi forse avrò una famiglia ma chi lo sa, ho sempre accolto tutti i cambiamenti con curiosità e continuerò a farlo.”