Quello che a lezione di storia non ci hanno insegnato: lo Ius Soli Sportivo non è un’innovazione, è un contentino. E neanche ben riuscito.
cc: fotogramma
La vedete questa foto? Il momento che ritrae ha rappresentato per me una delle emozioni più belle dell’anno - se non forse della mia vita sino ad ora - e non solo perché sono appassionata di atletica.
Per la prima volta (e speriamo non l’ultima) l’Italia è salita sul tetto del mondo in una delle gare di velocità più importante della specialità e lo ha fatto con una squadra a colory*.
La staffetta presentata dall’Italia alle Olimpiadi di Tokyo 2020 non era solo competitiva, ma era bella da vedere perché rifletteva la vera Italia, quella che i politici stanno rinnegando perché fa paura - anche se non ne capisco il motivo. Quella staffetta rappresenta il vero tessuto sociale italiano, pieno zeppo di colory*.
Poi si è ricominciato a parlare (prevedibilmente) di Ius Soli Sportivo ed ecco che il sentimento di fierezza è stato sostituito da quello di amarezza, perché in Italia non abbiamo bisogno di uno Ius Soli Sportivo. Ci serve lo lus SoliI e basta.
Ad un certo punto, però, sono venuta a sapere che in realtà lo Ius Soli Sportivo in Italia esiste già ed ecco che nella mia mente sono partite mille domande.
Com’è possibile? Perché chiederlo a gran voce se esiste già?
E perché per lo sport sono state fatte modifiche così importanti alla legge della cittadinanza del 1992, ma per tutelare milioni di persone che non esistono a livello giuridico per lo Stato non si è fatto nulla?
Mi sono messa a cercarla, l’ho trovata. Ed ho capito che questa Legge, in vigore dal 20 gennaio 2016, di Ius Soli non ha praticamente nulla.
Ma per capire il perché credo che sia lecito introdurre due concetti.
Il primo riguarda lo sport, poiché in questo ambito esiste la cittadinanza sportiva che si definisce come:
“l'entità politico-geografica che un atleta rappresenta nelle competizioni sportive internazionali. Tali entità non sempre coincidono con gli stati sovrani. La nazionalità sportiva, inoltre, si distingue dalla cittadinanza che può essere multipla, sia di nascita che di acquisizione successiva, mentre questa è, in ogni momento della vita di una persona, una sola.[1] In particolare, i cittadini nazionali devono scegliere, a un certo livello di competizione, la propria nazionalità sportiva. Queste regole dipendono da ciascuna federazione sportiva internazionale.”
[fonte wikipedia]
Un altro concetto utile ai fini dell’analisi l’’espressione giuridica Ius Soli:
“Acquisizione della cittadinanza di un dato Paese come conseguenza del fatto giuridico di essere nati sul suo territorio, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori, Si contrappone allo ius sanguinis (o «diritto del sangue»), che indica invece la trasmissione alla prole della cittadinanza del genitore, sulla base pertanto della discendenza e non del luogo di nascita.”
[fonte Wikipedia]
La legge 12/2016 permette ai minori stranieri di essere tesserati presso le federazioni sportive italiane dal compimento del decimo anno di età, se risiedono regolarmente sul territorio.
Il che è bellissimo all’apparenza, ma che cosa accade se volessero entrare in Nazionale ed indossarne i colori? Niente, perché per farlo necessitano della cittadinanza.
Allora in quale punto viene applicato il principio dello Ius Soli? Da nessuna parte sembrerebbe.
Di fatto, seppur tesserato a federazioni italiane, la tua cittadinanza sportiva rimane ancora la stessa associata alla tua cittadinanza giuridica. Questo vuol dire che per poter competere a livello internazionale si avrà comunque bisogno della cittadinanza, ergo aspettare il compimento dei 18 anni nel caso di GEN 2 nati qui o di far passare 10 anni per poter avviare l’iter, tutt’altro che facile, di richiesta.
In poche parole, il principio di Ius sanguinis viene comunque applicato e i giovani continuano a perdere le opportunità di vestire i colori della nazione che vorrebbero rappresentare e a non esistere giuridicamente per lo Stato e a non avere diritti.
Sirine Charabi, sa bene di che cosa sto scrivendo. Questa pugile di origine tunisina nonostante l’entrata in vigore di questo innovativo Ius Soli sportivo si è vista costretta nel 2017 a dover aprire una petizione su Charge.org prima ed a scrivere al Presidente Sergio Mattarella poi al fine di ottenere la cittadinanza per meriti sportivi in tempi brevi per poter partecipare ai mondiali della sua specialità che si sarebbero tenuti l’anno successivo in India, riuscendoci solo nel 2021 dopo aver vinto il campionato italiano élite di serie.
Arrivati a questo punto della lettura credo che a tutt* noi sia abbastanza chiaro che ancora una volta ci sia un qualcosa che non vada nella burocrazia italiana nel riconoscere e trattare le problematiche dei GEN 2, oltre che una seria problematica nel dare un nome corretto a fenomeni, persone e in questo caso ordinamenti.
In Italia non c’è bisogno di uno Ius Soli sportivo “”rafforzato” che conceda la cittadinanza per meriti sportivi non appena compiuti i 18 anni, perchè altrimenti l’atleta sceglierebbe di vestire i colori della nazionale di origine (come se ci fosse qualcosa di sbagliato in questo visto che il Paese in cui vive non è in grado di garantire un diritto fondamentale) o accetterebbe l’offerta di un'altra federazione disposta a fornirgli in tempi più brevi cittadinanza giuridica e conseguentemente quella sportiva e un buon corrispettivo economico.
Il problema va eliminato a monte, andando finalmente a modificare il testo della cittadinanza del 1992 e introducendo lo Ius Soli come criterio per l’ottenimento della cittadinanza. In questo modo anche nello sport non ci sarebbero intoppi, problemi burocratici e fughe di atlet* perché saremmo tutt* italian*, come è giusto che sia.
La cittadinanza non è un merito, la cittadinanza è un diritto.